
Un articolo scritto a quattro mani con la collaborazione del poeta e scrittore Matteo Anzaghi. L’idea di questo brano è nata a tavola durante una cena, molte volte le cose belle accadono attorno ad un tavolo. Il tema trattato è un problema che mi sta molto a cuore ovvero: la deforestazione. Un problema ambientale che riguarda tutti infatti è una delle cause più gravi dell’emergenza climatica in tutto il mondo. Nei miei viaggi in Borneo e a Sumatra ho visto con i miei occhi la netta riduzione della foresta pluviale causata dalle attività umane, provocando la distruzione dell’habitat di molte specie animali. Questo articolo vuole divulgare il problema tramite gli occhi di Mina, un orango che vive a Sumatra.
Il mio nome è Mina.
Non sono la “tigre di Cremona” come qualcuno potrebbe subito pensare. Sono un orangutan appartenente alla specie Pongo Abelii, la più rara delle uniche tre esistenti sulla Terra. Ho quarantadue anni e in tutto questo tempo ho visto e vissuto delle cose che non mi sono piaciute e che stanno facendo male a me e a tutti i miei simili, principalmente a causa della vostra specie.
Gli umani del villaggio indonesiano di Bukit Lawang mi chiamano la “regina della giungla”, come se avessi chissà quale potere. Di regale ho solo il pelo lungo, liscio e di colore rossiccio. Il mio “regno” non è uno studio di registrazione in Svizzera, tra il monte Brè e il lago di Lugano, bensì la grande foresta pluviale che domina le montagne a nord dell’isola di Sumatra. Ad essere onesta, credo che il mio soprannome derivi perlopiù dal mio carattere poco amichevole, dedito unicamente alla salvaguardia del mio cucciolo e ad allontanare in maniera aggressiva chiunque ci infastidisca; insomma cerco di farmi valere. Negli ultimi anni sono aumentati coloro che con la scusa di offrirmi dei frutti maturi, sperano di immortalarmi in uno scatto fotografico. Ben pochi ci riescono e solo quando riconosco un’ innocua guida della foresta che li accompagna.
Noi orangutan abbiamo da sempre la fama di essere animali solitari e, come nel mio caso, siamo estremamente cauti quando si tratta di avere a che fare con voialtri bipedi. Ma stavolta voglio fare un’eccezione, raccontandovi la mia storia.


Sono nata in un ecosistema che per me e per tutti gli altri orangutan rappresenta un habitat irrinunciabile: gli enormi alberi che crescono gli uni accanto agli altri in questa foresta, sono dei veri e propri pilastri le cui cime formano un grande tetto frondoso coperto da dense nuvole, che si formano grazie al vapore acqueo rilasciato in grandi quantità dalle foglie. Gli alberi sono anche la fonte vitale della nostra dieta alimentare che è totalmente vegetariana: durian, jackfruits e fichi ben maturi con un “contorno” di radici e insetti sono il mio piatto preferito.
Ricordo che quando ero ancora un cucciolo, mia madre aspettava che smettesse di piovere per insegnarmi come ci si sposta da un tronco all’altro, sfruttando le piante rampicanti che li attorcigliavano e le liane più sicure. Ricordo anche la gioia nei suoi occhi quando ero diventata in grado di raggiungere la cima degli alberi grazie alla sola forza delle mie braccia; da lassù la nostra foresta appariva come un grande oceano color smeraldo, senza confini.
Ma quello fu il nostro ultimo momento felice. Un giorno ho visto l’uccisione di mia madre da parte di un umano e da quel momento ho associato alla vostra specie l’immagine della pura crudeltà. Questa prima dolorosissima lacerazione ha accelerato i tempi del mio passaggio all’età adulta e anche alla maturazione di una drammatica consapevolezza: a sud-est di Sumatra, la foresta cominciava a mostrare i primi segni di un sempre più progressivo ridimensionamento. Le lunghe file di alberi iniziavano gradualmente a diradarsi e in lontananza alcune colonne di fumo nero carbonizzavano le nuvole spegnendo così il colore della foresta. La paura cominciò ad accompagnarmi da quel momento e per diverso tempo ho sperato che quel fumo non raggiungesse mai il punto in cui si trovava la nostra casa.
Ma quando ho ascoltato la storia di un piccolo gruppo di tigri di Sumatra in fuga proprio da sud-est, i miei timori divennero una terrificante realtà: gli alberi cadevano uno dopo l’altro per azione delle ruspe degli umani. Li sradicavano e poi li ammucchiavano in containers destinati alle falegnamerie sparse in tutta l’Indonesia e mentre il legno veniva lavorato in una qualunque delle vostre industrie, gli elefanti, rimasti senza il loro habitat, finivano in catene e poi venivano uccisi lentamente dai bracconieri. Gli oranghi non hanno avuto un trattamento migliore: quelli che precipitavano insieme agli alberi o morivano sul colpo, oppure finivano in gabbie destinate ai mercati e agli zoo di chissà quale parte del mondo.
Tanta morte e crudeltà gratuita per accaparrarsi i migliori tronchi di ramino o dei dipterocarpi per poi ridurli a dei sottili fogli di carta. È triste pensare che quelli sono gli stessi alberi, i cui rami intrecciati costituiscono l’elemento base del mio nido per la notte.



Per anni la deforestazione ha continuato incessantemente e dal 1990, Sumatra ha perso trentuno milioni di ettari di foresta per far posto alle piantagioni di palme. La prima volta che ne vidi una, mi colpì la foschia che l’avvolgeva e l’intenso odore di cenere che il terreno sprigionava; sui resti cremati della foresta erano stati tracciati i solchi in cui tuttora vengono piantate centinaia e centinaia di palme dai cui frutti si ricava quell’olio che è indispensabile all’industria dolciaria e che garantisce a tanti dei vostri alimenti un maggiore tasso di conservabilità ma anche un’alta probabilità di malattie cardiovascolari, se preso in dosi eccessive.
Oggi, il regno di noi orangutan e di tutte le altre specie a rischio estinzione, è relegato nel nord dell’isola e nonostante sia diventato un’area protetta, il mio rapporto con gli umani è sempre molto teso. La cicatrice che porto sul volto ne è il simbolo: un giorno una guida del parco si trovava vicino alla grande radice di un albero, dove stavo giocando con il mio cucciolo. Quando mi sono accorta della sua presenza, ho cercato subito di allontanarlo lanciandogli tutti i rami spezzati che trovavo, temendo che volesse farci del male e lui, per difendersi a sua volta, è riuscito a ferirmi con il suo coltello.
Allora perchè vi ho raccontato la mia storia? Perchè ho capito che non tutti quelli appartenti alla vostra specie sono mossi da crudeltà e cattive intenzioni.
Ho visto gruppi di umani prendersi cura di noi, quando arrivavamo in condizioni pietose nei centri di accoglienza. Ho anche sentito uomini e donne parlare di un modo più semplice e naturale di vivere, rispettando le altre creature della Terra e smettendo di sfruttare le sue risorse in maniera incontrollata.
Qualcuno è anche riuscito a tradurre questo in azioni concrete, dunque spero che anche voi riusciate a fare altrettanto, in modo consapevole.
Spero soprattutto che queste non rimangano parole, parole e soltanto parole tra noi.
Marika
Complimenti, bravissima ed avventurosa!!! Sembra, leggendo, di essere li con te..
Bru
Leggo questo articolo con interesse , perchè tra pochi giorni sarò proprio a Sumatra per vedere gli oranghi.
Che dire … purtroppo è vero, il Pongo Abelii, di Sumatra, è una specie a grave rischio estinzione , questo per opera dell’uomo che ne ha gravemente distrutto il suo habitat, quello che non viene scritto, è che molta povera gente che vive in queste zone ha sostentamento economico grazie all’olio di palma, anche se ad arricchirsi non è la popolazione ma le grandi multinazionali( come sempre )